foto di Simone Cecchetti (https://www.simonececchetti.com)

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Il 25 maggio, data importante per la biografia di cu_i, abbiamo fatto festa partecipando ad un’altra ricorrenza: la prima del nuovo tour di Vinicio Capossela: Ballate per uomini e bestie, dedicato all’ultimo lavoro in studio, di recente pubblicazione.

Il concerto è stato definito in apertura dallo stesso Capossela come ‘battesimo” e il riferimento, che sembrava soltanto letterale, si è precisato ed approfondito nelle sue risonanze nel corso della serata mentre si andava manifestando in ondate sonore ed emotive la densità di contenuti dell’ultima opera caposseliana: di battesimo si è trattato per il pubblico, bagnato con intensità variabile ma costante dalla pioggia; battesimo è stato per i musicisti, nel primo passaggio dallo studio al live di quello che, già a caldo, è apparso come uno dei capolavori dell’opera dell’artista. Battesimo con l’acqua di pioggia di cui poco ci siamo accorti mentre andavamo partecipando all’epifania del sacro immanente – per usare l’espressione spesa da Vinicio in una delle brevi ed emozionate introduzioni ai pezzi – che si è reso concreto nel contesto del perfetto ricettacolo di Sermoneta, rimbalzato dalle pietre antiche del Castello.

Il viaggio musicale lungo le tracce dell’album ha evocato intorno a mura e persone la notte magica del santo protettore degli animali: il già Santo Nicola e da oggi pure Santo Antonio Capossela ha intercettato nei testi e nelle composizioni musicali la meraviglia della parola che si trasferisce da uomo ad animale, unendo uomini e bestie in ballate dove il legame sacro con la terra, la bestialità dell’Uro, del Porco e del lupo mannaro, che richiama quella dello sfaccettato totem delle trasmutazioni della “Cupa”, serve a “lasciare il reale per entrare nel vero”, come ripetuto dal nostro.

La verità sollecita risposte, sempre: quella di stanotte è stata plasticamente raffigurata dal pubblico impermeabile e trafitto nel cortile del castrum dai fulgori della parola autentica. La danza della lumaca con cui l’artista ha concluso, nel silenzio delle parole e della musica, il pezzo che chiude il cerchio delle trasmutazioni bestialmente poetiche dell’album, è stato il suggello di quanto solo può avere luogo nel consenso unanime di tutti i presenti al rito battesimale, strumenti musicali e canali digitali inclusi. Se la verità è piena i riferimenti simbolici prendono vita da ogni scintilla: tutto animale, tutto anima.

Resi saggi dal manifesto de La peste, uscendo dalla celebrazione poetica di cui conserviamo vivo il privilegio della memoria, a beneficio dei consueti untori del banale vale ricordare che la prova vocale è stata impeccabile, che l’ensemble dei suonatori, potenziato e integrato di sostanza neo-medievale, ha costruito, sull’intelaiatura – anche musicale –  predisposta dal direttore Capossela, una performance live (supportata dall’ottimo lavoro di Gohara, solido almeno quanto le mura perimetrali che cingevano il nucleo sonoro), che si è imposta come viatico, fin dalle prime note, del miracolo antropomorfo di S. Antonio.

Eppure questo non basterebbe ad usare la parola capolavoro, vista la qualità costante che imperversa nell’arcipelago della produzione caposseliana. Si potrebbe circoscrivere la cosa alla realizzazione di un ottimo live, quell’alchimia che a volte i frequentatori di artistici “sponsalizi” live sanno di stare vivendo per buona sorte, congiuntura stellare, sospensione della legge inesorabile del karma: la serata perfetta, l’evento singolo che non suonerà come tutti gli altri del tour. Ma c’è altro. C’è, al centro del progetto, un artista capace di auto-citarsi non in ossequio all’ego ma come tributo di (appunto) verità ermeneutica verso il proprio percorso. Ritroviamo allora le orme sonore che ci hanno conformato orecchie e sentimenti a partire dal salto nell’ulteriore artistico de Canzoni a manovella, e poi Da solo, Marinai profeti e balene, Rebetiko Gimnastas, Canzoni della Cupa (quest’ultimo in un legame ancora più inscindibile con il presente lavoro, di cui rappresenta quasi una volatile quintessenza, distillata nell’ubriacante bellezza delle Ballate). Le ritroviamo, insieme ad un testo che si è condensato nell’essenziale della sintesi poetica, dove ogni parola appare necessaria alla consonanza del tutto che ci fa vibrare, piangere come quelli che, è il caso di dire, non aspettano la pioggia per farlo, ma invece la pioggia era vera e le lacrime pure. E gli stessi che hanno descritto in termini sostanzialmente involutivi il percorso artistico di Capossela, parlando prima di dispersione nell’autoreferenzialità, poi di una sorta di delirio che si allontanava dalle ‘belle canzoni’ per raffigurare uno sgangherato paese dei balocchi descritto più o meno in maniera paradossale (infantilismo di ritorno da crisi dei 50 raccordato con un’astuta e persistente operazione commerciale), dovranno fare i conti con un prodotto artistico che si raccorda, nella potenza della parola, nell’incontro con la musica, nel riferimento a santi e poveri cristi, ad un’altra buona novella, cara a chi ha amato il genio e la qualità espressi, talvolta, nel panorama della musica cantautoriale italiana, segnando un ulteriore punto di crescita e di approfondimento della poetica e della produzione di Vinicio.

E se il riferimento alla realtà attuale si fa stringente, è solo perché la realtà si fa stretta rispetto al vero.