Assistere alla prima nazionale in Italia di The Prisoner, ultimo spettacolo di Peter Brook diretto insieme a Marie-Hèlène Estienne, ha significato trovarsi per poco più di un’ora di fronte alla rappresentazione della Verità. Dell’oggettività più assoluta dell’essere Uomo con le sue libertà e le sue prigioni e a quella di un Teatro di Vita che sa rinunciare ad ogni orpello stilistico, ad ogni cliché artistico, a favore dell’essenzialità e della scarnezza della durezza della vita.  Vivere la propria prigione interiore significa lasciare spazio all’inizio di un nuovo percorso in cui — si presuppone — l’uomo, possa trovare se stesso.

La polvere alzata sul palcoscenico dallo scotimento della coperta e messa in evidenza dalle luci sceniche ci porta senza dubbi nella foresta; i pochi gesti sono minuziosamente scelti per trasferirci nel mondo interiore dei singoli personaggi; la comparsa, solo attraverso un espediente recitativo, di un animale della collina, per rendere la superbia dell’uomo. Ogni singola battuta, ogni gesto sono semplici e densi allo stesso tempo; diretti alla domanda successiva. È uno scorrere continuo di interrogativi sulla condizione umana che quasi sempre si condanna da sola e preclude a se stessa la redenzione. La giustizia diventa l’espediente per dividere i giusti da coloro che hanno colpe, senza attraversare il dolore,  senza vivere un sacrificio dell’anima che può garantire una nuova condizione di apertura alla vita.

Spesso “restare” può voler dire non fuggire da una propria condizione interiore che ci imprigiona anche quando le condizioni esterne cambiano. Il viandante, alla ricerca di risposte che possano sanare una condizione di disordine interiore, cercherà al ritorno, le stesse risposte, ma sarà messo nella condizione di trovare un modo nuovo per fare fronte alla propria condizione di prigionero. L’esempio di Mavuso, la resistenza piena di sofferenza espressa dal suo sguardo, pone il viandante nella consapevolezza per cui, interrogare senza interrogarsi, è inutile. Quello sguardo procura un silenzio reverenziale verso la prigione che può essere espugnata solo se osservata profondamente, con costanza e umiltà.

Quattro attori ci mettono di fronte ai caratteri umani e ai diversi modi dell’uomo di affrontare la vita. Ezechiele, personaggio che incarna fedelmente il ruolo e la statura del profeta, ci porta la speranza del Dio in noi e di nuovo il messaggio della possibilità che l’uomo possa in ogni caso superare l’errore in nome della sua rinascita.